La paura di una guerra mondiale continua ad aleggiare sul pianeta. La politica e la diplomazia, le due Muse di ogni possibile pace, sembrano esauste e impotenti. Ma non è giusto rassegnarsi alla loro latitanza: perché l’unica vera chance di pace è proprio che esse tornino rapidamente a governare il destino delle comunità umane. Tant’è che la notizia della tregua tra Israele e Hezbollah ha già improvvisamente aperto un orizzonte di speranza. Vedremo se sarà efficace e duratura, ma intanto mettiamo con sollievo agli atti un primo, decisivo cambio di rotta.
Certo, negli ultimi anni, il disordine si è impadronito del mondo. E in realtà qualcuno, compreso Papa Francesco, ritiene che una terza guerra mondiale sia di fatto già cominciata. In effetti, Putin ha coinvolto nell’aggressione all’Ucraina la Corea del Nord, l’Iran e ora pare anche gli Houti: perciò è difficile trattenere una cupa preoccupazione. Di più: c’è chi pensa che le due guerre, quella in Europa e quella in Medio Oriente, siano in verità una sola: un grande conflitto aperto contro l’Occidente globale allo scopo di disegnare un nuovo ordine mondiale non più a “guida americana”.
Solo la storia ci dirà cosa ci attende nel futuro. Ma una cosa è certa: la politica e la diplomazia, per quanto ammalate, hanno ancora il tempo di evitare qualsiasi possibile catastrofe. Alla condizione che riescano, come detto, a riconquistare con i fatti il centro della scena mondiale. Perché, come diceva Bismarck “quanto più esse sono forti tanto meno è probabile la guerra”. Occorre, dunque, per fermare i conflitti, uno scatto di determinazione e di inventiva strategica di tutta la politica mondiale.
Intanto, c’è da osservare che il recente pronunciamento della Corte penale internazionale non ha certo dato una mano. Quella Corte ha il compito di giudicare i comportamenti individuali. Ma cosa succede se gli “individui” indagati sono anche i capi di importanti Stati? Nel caso di Putin la questione era meno complessa: perché la Russia era il Paese aggressore. Non così per l’incriminazione di Netanyahu: perché, come che si giudichino le sue iniziative a Gaza, esse rappresentavano comunque la risposta ad un’aggressione subita. Senza poi dimenticare che, da sempre, in quell’area del mondo, si intrecciano complessi nodi storici, politici, culturali e religiosi, non certo solubili con il verdetto di un tribunale. E’ apparso perciò subito evidente che il mandato di arresto per il leader israeliano non aiutava il cammino della pace se non altro perché, in ogni caso, essa dovrebbe essere siglata proprio da lui. Perciò, al contrario di quanto sostenuto da Borrell, l’Europa fa bene a cercare una mediazione tra il rispetto delle decisioni della Corte e le esigenze della realpolitik.
Purtroppo è ormai chiaro che l’Onu, in prima persona, o attraverso le sue Corti, non è in grado di dirimere nessuno degli attuali conflitti. Perciò le residue chances della politica e della diplomazia, restano nelle esclusive mani delle principali potenze planetarie. In primis, gli Stati Uniti d’America. E qui si apre un cruciale interrogativo: saprà e potrà Trump rinunciare a uno dei segni distintivi del trumpismo, e cioè all’annunciata politica isolazionista? Il tycoon è imprevedibile e, così come ha sorpreso tutti nominando lo stimatissimo Scott Bessent segretario al Tesoro, potrebbe sparigliare le carte in tavola anche smentendo, o modificando in parte, le posizioni finora assunte sulle “due guerre”.
Per ciò che riguarda il Medio Oriente sarebbe essenziale, nel mentre si continua giustamente a proteggere il destino dello stato d’Israele, ricominciare a tessere la tela degli “accordi di Abramo”, non rifiutando l’orizzonte della nascita di uno Stato palestinese, come Netanyahu si ostina a fare. Per ciò che invece riguarda l’Ucraina è certamente ragionevole immaginare un negoziato che implichi la perdita, magari “congelata”, di parte del territorio di Kiev. Ma non è affatto ragionevole negare a Zelenski l’ingresso nella Nato. In ogni caso è obbligatorio studiare formule militari e geopolitiche che garantiscano l’assoluta integrità dell’Ucraina negli anni a venire (modello Corea o modello Germania del Dopoguerra). Altrimenti la guerra sarebbe soltanto rinviata nel tempo, sancendo nei fatti la completa vittoria di Mosca. Se la politica di Trump si orientasse intorno a tali modelli, ciò renderebbe anche più facile il rapporto con l’Europa. Infatti, di fronte a nuovi impegni dell’Ue intorno a una propria autonoma politica di difesa (e alle conseguenti spese militari) il neopresidente potrebbe immaginare la definizione di una nuova “alleanza occidentale” che non pesi più, in modo squilibrato, sulle esclusive spalle di Washington.
Già un’altra volta il mondo si è trovato sull’orlo di una minaccia atomica. Nel 1962, con la crisi di Cuba. Allora John Kennedy riuscì ad evitarla esibendo verso Kruscev un mix di coraggio, forza politica e diplomazia. Ebbene lo stesso mix serve anche oggi. Esattamente come Kennedy (il cui nipote è nel nuovo governo) Trump deve mostrarsi capace, al contrario di ciò che finora ha fatto intuire, di saper tenere testa a Putin, di non essere accondiscendente nei suoi confronti, senza per questo smettere di pensare che la “guerra europea” debba finire al più presto. Coraggio, forza politica, diplomazia. Quasi sempre, nella loro storia, sono state queste le impronte caratteriali degli Stati Uniti. Ebbene, ancora una volta, il mondo ha bisogno del loro protagonismo, non della loro eclissi. Solo il ritorno in campo della Grande Politica, coadiuvata da un’intelligente diplomazia, può far uscire il mondo dall’incubo della guerra.
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