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Cataldo Sgarangella, il maggiore che ha indagato da Parmalat a Bio-On: «I numeri si vendicano, così è caduta la start up bolognese»


di
Marco Madonia

Le indagini sulla società che prometteva di salvare il mondo dalla plastica: «I ricavi si fabbricano, i soldi no»

«Per Parmalat mi chiamarono dalle ferie, era dicembre e il gruppo non riusciva a ripagare il bond. Sono arrivato a Parma e mi sono immerso nell’indagine». Il maggiore della Finanza Cataldo Sgarangella guida la Sezione reati societari e fallimentari. Vent’anni fa partecipò ai vari processi per la bancarotta dell’impero Tanzi. «La liquidità di bilancio non esisteva, l’estratto conto veniva fatto sul pc». Poi Capitalia-Geronzi e più recentemente la ricostruzione del documento Bologna, i flussi che dal banco Ambrosiano di Calvi sono stati usati da Gelli per la Strage del 2 Agosto. Negli ultimi 5 anni si è occupato di Bio-on, la start-up da 1,3 miliardi fallita dopo il report del fondo Qcm e l’inchiesta della Procura. Sono arrivate le condanne di primo grado: 5 anni e 2 mesi ai due fondatori, condannati i componenti del cda e del Collegio sindacale.

Come vi imbattete in Bio-on?
«Lo sappiamo dalla stampa, il 24 luglio 2019 con il video di Grego che l’accusava di essere una nuova Parmalat. Abbiamo preso subito contratti con la Procura. Le dichiarazioni del fondo erano così forti che hanno fatto crollare il titolo, 700 milioni in una mattina. Se Grego mentiva ci trovavamo di fronte a una manipolazione di mercato, perché Qcm aveva dichiarato di avere un interesse nel crollo. Altrimenti il problema era Bio-on».




















































Le difese hanno sostenuto che avete indagato in una sola direzione.
«Non avevamo alcun pregiudizio, abbiamo guardato tutto. La centralità dell’indagine erano comunicazioni e bilanci di Bio-on. Abbiamo provato a intercettare il telefono di Grego e di altre persone vicine a Qcm. Ma i riscontri li abbiamo avuti su Bio-on».

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Cioè?
«Al telefono dicevano che ciò che era indicato in bilancio non era genuino, si parlava dell’assenza di flussi di cassa, la famosa frase sui wishful thinking, parlavano dei problemi sui bilanci precedenti».

E da lì?
«Siamo partiti con le indagini a tutto campo. Il nostro problema, sulla parte di Qcm, era anche vedere se nel report avessero avuto accesso a informazioni privilegiate. Non abbiamo trovato riscontri».

Le difese hanno detto che non avevate le competenze per fare le indagini. Che non avete letto i contratti.
«I contratti sono stati letti, ma in un secondo momento. La prima informativa arriva quando l’indagine non era palese, abbiamo analizzato i bilanci. Quello che ci ha fatto scattare è stata la telefonata tra il capo del collegio e un consigliere nella quale dicono che sostanzialmente non c’era nulla sotto. Poi con le perquisizioni e le indagini abbiamo acquisito tutto il materiale, come i contratti trattati nell’informativa finale».

Avete valutato la tecnologia?
«No, non era nei nostri compiti. Abbiamo acquisito elementi che evidenziavano come, alla data del nostro intervento ma anche dopo, l’impianto di Castel San Pietro non aveva prodotto quasi nulla. Quel poco non era stato prodotto con scarti della barbabietola ma da zucchero perché c’erano problemi. Abbiamo sentito il responsabile dell’impianto e ha confermato tutto».

É stata un’indagine complessa?
«Debbo dire che inizialmente le intercettazioni ci hanno aiutato. Poi, a parte il 2018, si trattava di analizzare un paio di operazioni, tutte alle fine dell’anno. Il progetto con i francesi non è mai partito, è stato messo il ricavo a bilancio e non il debito con Coprob. Nel 2016 c’è tutto il tema della “decisione politica” venuta fuori dalle mail del revisore. Sul 2017 abbiamo sentito Ottani e poi provato a capire che fine avesse fatto il progetto Iran».

Per la difesa, la sentenza ha azzoppato la linea della Procura.
«È stato riconosciuto il falso in bilancio in tutte le annualità contestate e quindi la validità del nostro lavoro ben diretto dalla Procura. C’è stato un confronto quotidiano con i pm Caleca e Martorelli. Sapevamo che era una società quotata e bisognava tutelare i risparmiatori, c’è stata un’attenzione particolare».

L’inchiesta e il crac di Bio-on sono un danno nella lotta contro la plastica?
«Noi ci occupiamo dei bilanci che erano falsi, ciò che poteva essere e non è stato non fa parte dei nostri compiti».

La crisi è colpa di Qcm?
«Bio-on non aveva liquidità, perché non incassava crediti vecchi di anni. Non si può pensare che la liquidità sia stata prosciugata in due mesi. Fino a quando c’erano i proventi della quotazione e dei warrant è andata avanti poi non ce l’ha fatta e si è indebitata. Nessuna azienda può andare avanti così».

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Cosa l’ha insospettita?
«Se un credito resta nel tempo c’è qualche problema».

Cosa ci insegna questa storia?
«Uno può falsificare il bilancio su dati economici e patrimoniali, ma gli aspetti finanziari tradiscono sempre. Parmalat dichiarava grande redditività e liquidità ma continuava a indebitarsi. Bio-on continuava a non incassare crediti e produrre cassa, i bilanci queste cose le fanno vedere. I numeri si vendicano sempre. I ricavi si possono fabbricare, i soldi no».

29 novembre 2024 ( modifica il 29 novembre 2024 | 07:10)

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